– di Claudio Mancini –

Il Monte Circeo è un pezzo di roccia attaccato alla terraferma da un solo lato su quattro, mentre con le tre rimanenti ammicca al mare e rimpiange il suo passato di isola.

È la meta del nostro ciclotrekking estivo, un’impresa lunga due giorni in cui ogni metro è stato guadagnato e sudato, prima attraverso i carri bestiame di Trenitalia, poi col cigolio dei pedali sotto il sole della piana pontina, infine col sudore che riga la fronte nell’arrampicata notturna – la Bellezza impone un prezzo da pagare, e il prezzo a volte si fa esso stesso bellezza.

Gli impavidi che si presentano all’appuntamento a Stazione Termini sono 6, Francesco, Laura, Claudia, Alessia, Marilena e il sottoscritto – Filippo perde il treno per una manciata di secondi, e Andrea ci attende già in spiaggia. Tutti sono ancora ignari di ciò che li aspetta, o perlomeno lo sembrano.

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I primi esperimenti di democrazia nella truppa ci erano già stati nei giorni precedenti, quando l’esito dei playoff agli Europei ha inchiodato la partita della Nazionale contro la Germania a sabato sera, con un tempismo perfetto rispetto ai piani di scalata del monte. Commovente l’appello di Andrea, che ha proposto varie alternative per salvare capra e cavoli (là dove la capra è l’escursione e i cavoli la partita, in tutti i sensi), altrettanto commoventi le reazioni di solidarietà e disponibilità degli altri. Si parte quindi con interessi e aspettative diverse, con il piano-base di salire in vetta dopo una giornata di mare e la partita vista al primo bar sulla spiaggia, e con una certa flessibilità e speranza nel sivedràpoi.

Approdati più o meno felicemente alla stazione di Priverno-Fossanova, scarichiamo le bici e ci inoltriamo lungo i canali di bonifica in direzione Terracina: l’Amaseno ci accompagna verso il mare, tra campi arati e canneti, il sole è malapena smorzato da un vento teso e vitale.

La strada è un nastro diritto che guadagna il suo spazio nell’umido che attende soltanto la sera per essere invaso dalle zanzare lungo i fossati, alle spalle i Monti Ausoni, sulle spalle gli zaini dai quali penzolano materassini e scarpe da trekking; davanti il corso dell’Appia, che riusciamo a evitare per stradine secondarie.

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Il tempo di una sosta a base di acqua e frutta a Borgo Vodice, e ci ritroviamo nella scacchiera delle strade migliare, e di lì nell’ombra violenta del Parco Nazionale. Siamo ormai alle porte di Sabaudia, e decidiamo di deviare nel bosco di eucalipti: il fondo si fa sabbioso e sassoso, il sole quasi scompare affogato dai rami, i punti di riferimento così netti nell’agro pontino scompaiono in una guazza verdastra.

Le forme bianche, squadrate e autoritarie di Sabaudia rimettono in riga la nostra pedalata fino all’incontro con Andrea, che ci aspetta a un bar da qualche ora: “Mi prendo una cosa nel frattempo”, aveva detto.

Picnic sull’erba e recupero del disperso Filippo, che ha eroicamente preso il treno successivo e affrontato la tratta Priverno/Sabaudia in solitaria, sbagliando strada una sola volta; il suo cappello della Croazia a scacchi bianchi e rossi diventa immediatamente il simbolo dell’escursione. La compagnia è finalmente al completo.

Il resto del pomeriggio è fatto di sole implacabile e degli orizzonti lunghi sul cui sfondo le onde tormentano la sabbia. In altre parole, di svacco al mare.

Ma i chioschi di Torre Paola hanno un concetto di turismo un po’ diverso dal nostro, e quando ci dicono che quattro Nastro Azzurro piccole costano 28€, la decisione di salire prima della fine della partita e di ripiegare sulla romantica soluzione della radiolina in cima prevale all’istante.

Sono le sette e mezza di sera quando scrocchiamo come dei paria i bagni per cambiarci e ci avviamo diretti alla scalata.

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Fatte le provviste a un banco di frutta e verdura alla base del sentiero, leghiamo le bici tra di loro e le abbandoniamo nel bosco per la notte. I sandali cedono il passo agli scarponcini, l’imbrunire porta con sé più forti i profumi della macchia mediterranea, le magliette sono ormai una massa informe di sale, sabbia e sudore. E ancora dobbiamo salire.

Andrea introduce il sentiero provato la sera prima: “Ci aspetta una salita nel bosco piuttosto dura, poi abbiamo l’opzione tra la direttissima al coperto nel verde o la panoramica, che si fa tutta la cresta a picco sul mare”. Viene scelta quest’ultima opzione, per la gioia di Claudia e delle sue vertigini – tanto sarà buio, occhio non vede…

Mentre il tramonto uccide lentamente il più bel pomeriggio di tutta l’estate e la sua luce imperiosa, otto figuri si incamminano per il sentiero, nel seguente ordine: in fondo a tutti, Francesco, eroico mulo trasportatore di vivande comuni, stabile e torciamunito; con lui Filippo, dal quale arrivano in maniera santi e imprecazioni; poco avanti Alessia, che preferisce più sobri sbuffi; con lei Marilena, silenziosa; qualche curva più in su, Claudia e Laura, che avanzano a quattro zampe maledicendo silenziosamente la scelta panoramica, e io che cerco di tradurre le indicazioni di Andrea che apre la fila: “Claudio, vedi che c’è un burrone lì a destra, dillo alle ragazze”

“Ok, qui stiamo a sinistra e guardiamo in basso”

La torcia in una mano, la radiolina nell’altra, dall’oscurità giungono le sue urla euforiche per la partita: pare Achab appresso alla balena bianca.

E Circe nel buio scansa i rami e sorride.

“Rigore per l’Italia!”, e Picco d’Istria trema.

“Siamo arrivati?” “Quasi, lassù” “È buio, dove?” “Quella forma nera” “Ancora?” “GOOOOOL” “Che c’è qui sotto?” “Niente” “Qui anche con le braccia” “Come stanno a giocà?”

Si canta per tenere alto il morale della truppa. Man mano che la quota sale, il livello scende.

E Circe nel buio scansa i rami e sorride.

Ci siamo. La cima, a lungo attesa, è avvolta nelle nubi, ma non impedisce al mare di farsi sentire mentre agonizza sugli scogli, cinquecento metri più in basso.

Ce l’hanno fatta tutti. Andrea svolta l’angolo e trova un altro gruppo: hanno l’I-pad e stanno vedendo la partita
, e distruzione della tranquillità altrui: la coppietta arrivata in cima per una scalata romantica incassa il colpo e fa buon viso a cattivo gioco, noi portiamo un’atmosfera da film di Vanzina in un luogo abitato dagli dèi. Le rovine del tempio rimangono mute con le loro pietre, Circe nel buio scansa i rami e sorride.

Lo spazio in cima è poco, sassoso e impervio: le luci della città sono fioche, molto più intense le stelle che disegnano figure millenarie. Ci accampiamo proprio a fianco della tenda dei due sventurati piccioncini, per togliere loro l’ultimo residuo di privacy coi nostri grugniti. Lo spazio è poco e la disposizione a bastoncino Findus è l’unica possibile, un tappeto umano di sacchi a pelo impregnati di polvere umida e sassi.

La notte scorre mistica e irreale, segnata dal profumo intenso della macchia e dal continuo passaggio di nubi che attraversano il picco roccioso, regalando qualche goccia di pioggia e folate di vento alle parti di noi rimaste scoperte dal sacco a pelo.

Di sicuro, Circe nel buio scansa i rami e sorride.

Il risveglio ci coglie impreparati e con poche ore di pessimo sonno. Nebbie mattutine come in un film di Kurosawa, nuvole ancora più basse di ieri e un azzurro ritrovato dopo il maltempo notturno.

Si mettono insieme i pezzi e si preparano le ginocchia per la discesa. Il sudore ci accompagna in qualsiasi verso, quindi è con noi anche oggi, e non ci abbandonerà prima di averci lasciato in compagnia del suo amico sale.

Quando raggiungiamo le bici, il sole è già alto: è tempo di una birra e di un panino, e di tuffarsi di nuovo nella salsedine e nella ressa di tatuaggi e crema abbronzante.

Il resto del pomeriggio scorre inesorabile tra scottature, sale, un Tirreno più vispo del solito, incontri con cuccioli di cinghiale e litigi con capitreno dalla mente poco elastica.

Ma anche stavolta si torna a casa con qualcosa in più, ustioni comprese.

Un weekend al Circeo: il racconto del nostro ciclotrekking tra mare e partite dell’Italia
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